L’addio del Muneco Gallardo al River è una questione di appartenenza
In Sudamerica il calcio è vita e forse anche di più.
Perché, per definizione, tutti i cicli vitali finiscono, mentre l’America Latina, come nessun’altra zona del mondo, è capace di attribuire eternità ai propri interpreti migliori.
Ai calciatori e agli allenatori che con le gesta in campo si guadagnano un posto nell’Olimpo degli indimenticati, verso i quali riporre amore è un atto totalmente naturale.
Spesso scatenato da un valore necessario e onnipresente in tutto il continente: l’appartenenza.
Immedesimarsi nella squadra e nei suoi protagonisti è un aspetto quanto mai vivo e necessario. La conquista del pueblo, della hincha, permette di diventare custodi del cuore e dell’orgoglio di milioni di tifosi.
Far sentire vicina la gente comune, alla costante di ricerca di uscire dal torpore di una povertà estremamente diffusa in quell’area del mondo, riponendo i propri sogni nel pensiero di potercela fare.
Mentalità che, per esempio, porta l’ormai milionario Carlitos Tevez a farsi chiamare ancora Apache, in onore del fuerte, del barrio in cui è nato e cresciuto.
Legami che rendono il futbol latino un universo a sé e che portano all’incoronazione di leggende indelebili. Ovunque, ma forse in Argentina un po' di più.
Pablo Aimar, Roman Riquelme, Messi, Maradona, Tevez, Marcelo Gallardo.
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L’allenatore del River Plate, come pochi altri nell’ultima decade, è stato infatti capace di diventare simbolo di una piazza gloriosa. Realtà raccolta ad appena tre anni da una storica e vergognosa retrocessione per portarla ad una vittoria eterna contro il Boca Juniors, in finale di Libertadores, al Bernabeu di Madrid. Un risultato che fa venir la pelle d’oca anche solo a pensarci e che lo ha reso una vera e propria icona.
Di un popolo, di una fetta di Buenos Aires e di tutta l’Argentina.
Perché nonostante la rivalità con gli Xeneizes si costruisca su di un odio difficilmente replicabile altrove, la mobilitazione mediatica per celebrarne il recente addio a la Banda non ha avuto colori, ma solo un generale riconoscimento di grandezza.
Col River Plate cucito addosso
Marcelo Gallardo ha dedicato la quasi totalità della propria vita sportiva al River. Dieci anni da giocatore con la casacca bianca a banda rossa e 8 da allenatore. Praticamente un ventennio con las Gallinas come centro di gravità della propria esistenza calcistica. Viatico perfetto per conquistare una piazza estremamente calda, ma al tempo stesso esigente.
Diventare simbolo in veste di allenatore, infatti, non è mai facile. Ancora meno mantenere la nomea conquistata da atleta anche in veste di “mister”. Tanti ci hanno provato, pochi ci sono riusciti. Pippo Inzaghi, Gattuso, Xavi e tanti altri, icone indiscutibili ma incapaci di godere del medesimo amore conquistato con gli scarpini ai piedi.
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Aspetto che rende el Muneco, la bambola, ancora più speciale. Proiettandolo nell’élite insieme ai Carlo Ancelotti, i José Mourinho, i Cholo Simeone e i Sir Alex Ferguson. Condottieri che grazie ad un mix di vittorie e alchimia sono diventati punto di riferimento di piazze come Milan, Inter, Atletico Madrid e Manchester United.
Riuscendo, al tempo stesso, a reincarnare anche un valore presente in Sudamerica e sempre più raro in Europa come la longevità degli allenatori.
Alla Oscar Tabarez, per intenderci. Vecchio allenatore del Boca, ma da 15 anni seduto sulla panchina dell’Uruguay. Nonostante risultati poco esaltanti, veneranda età e problemi di salute. A dimostrazione di come in America Latina non vi sia una continua lotta alla ricerca del risultato. O perlomeno di come questa non prevarichi il sentimento e la già citata appartenenza. Un continente dove la connessione con camiseta e popolo viene sempre prima di un esonero.
L’impatto mediatico
Recentemente el Muneco ha annunciato il proprio addio al tanto amato River Plate. Dopo averne riempito la bacheca con 3 Coppa d’Argentina, 2 Supercopa Argentina, 1 Campionato, 1 Copa Sudamericana, 3 Recopa Sudamericana e 2 Copa Libertadores saluta una piazza che ha contribuito a rendere grande.
Notizia che ha conquistato l’attenzione del Paese e delle sue testate principali. Accomunate da un medesimo approccio tarato sul sentimento, le lacrime e l’affetto.
Diario Olè, per esempio, ha voluto dedicare la propria prima pagina alla possibilità di un ritorno. “Nos volveremos a ver”, riportando il virgolettato dello stesso allenatore, come a voler spezzare la tristezza dei saluti con la chance di ritrovarsi.
Per poi mantenere la stessa filosofia anche sui social. Dando risalto alle lacrime e ai cuori infranti per la fine di un’epoca. Dalla bandiera Enzo Perez, visibilmente commosso.
Alla figlia, coinvolta nell’applauso del Monumental in onore al papà.
Approccio seguito a ruota anche da un altro importante giornale locale come La Nacion, anch’esso incline a dar risalto al lato umano dell’addio.
E da Clarin, volenteroso di sottolineare i canoni eterni del rapporto tra Gallardo e la sua gente. Al fine di omaggiare una fine in cui in realtà probabilmente non crede nessuno perché un amore, latino, così forte è destinato a durare.
Scelte editoriali molto inclini al modo di vivere il futbol. Passionale, umano e di sangue.
I numeri sui social
L’addio a Gallardo ha preso piede anche sui social network a partire dalla giornata del 17 ottobre.
Tantissimi contenuti inerenti al tema e il lancio dell’hashtag #GallardoEterno, come marchio e riconoscimento di grandezza.
Il suo utilizzo in un solo giorno ha toccato i 2700 post su Twitter, Youtube, Facebook e Instagram, con un engagement pari a 15mila ed una portata potenziale di 2,9 milioni. Numeri destinati a crescere nelle prossime ore.
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