La pratica dello Sportwashing è vecchia quanto la storia del calcio

Una pratica che no, non è nata con l'assegnazione dei Mondiali al Qatar

Al minuto 53 della sfida tra Arabia Saudita e Argentina succede qualcosa di impronosticabile e al quanto affascinante: il numero 10 arabo Salem Al-Dawsari segna il gol del vantaggio che resterà definitivo fino al triplice fischio finale.

È un momento storico per l’Arabia Saudita che batte nella gara di esordio una delle nazionali indicate come favorite per la vittoria del Mondiale.

Il nome del marcatore non è banale, perché Al-Dawsari è proprio il simbolo di un accordo tra LaLiga e l’Arabia Saudita che ha portato nelle casse della massima competizione spagnola per club soldi e visibilità internazionale, in cambio di una forma di apprendistato per calciatori arabi in terra spagnola.

La stessa istituzione calcistica, ovvero LaLiga, che nella voce e nella figura di Javier Tebas aveva definito l’interesse dell’Arabia Saudita verso il calcio come un’operazione di “Whitewash Reputation”.

L’idea di affidarsi ad una mera operazione di pulizia della reputazione tramite lo sport è stata spesso affibbiata a diversi paesi del Golfo, in particolare al Qatar negli ultimi anni per via dell’onere dell’organizzazione dei Mondiali.



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L’idea di un’entità governativa di migliorare la propria reputazione sociopolitica agli occhi degli altri attraverso l’organizzazione di grandi eventi sportivi ha assunto un nome preciso: ovvero Sportwashing.

Alle origini europee dello Sportwashing

Con l’avvicinamento dell’inizio dei primi Mondiali invernali, la bolla della polemica verso il Qatar si è ingigantita gradualmente, occupando sempre maggior spazio sia nei talk televisivi che sulle diverse piattaforme social. Talmente tanto da far credere che la pratica dello Sportwashing fosse un costrutto dei nostri tempi, e non invece un fenomeno messo in pratica da regimi politici già dall’inizio del Novecento.

Nonostante i tentativi goffi da parte della FIFA e in prima persona da Gianni Infantino di scindere interessi economici e politica dal calcio, il modus operandi adottato per gli ultimi Mondiali ha palesato poco interesse da parte del Comitato organizzativo qatariota di dare seguito al primo importante mattone di cultura sportiva che il Mondiale poteva rappresentare per il Qatar.

Dagli stadi che in parte spariranno, alla pomposa cerimonia di apertura con la raffigurazione di tutte le mascotte della storia della competizione per nazionali. Tutto ha fatto presagire ad un tentativo di ben figurare, volto a nascondere alcuni aspetti ambigui, cercando poi di pomparne altri più spettacolari.

Quell’elemento di intrattenimento di circostanza decisamente marcato in questi mega eventi, d’altronde, è un tratto che da sempre caratterizza la pratica dello Sportwashing.



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È successo così nei Mondiali del 1978 in Argentina, tanto contestati all’epoca perché organizzati in un paese in preda alla dittatura presieduta da Jorge Videla. Duemila morti e 30.000 persone scomparse perché ritenute oppositrici del regime, non furono un buon pretesto per il cambio di assegnazione. 

Per quel Mondiale Videla e il comitato argentino organizzarono di tutto per far sembrare quel mese di calcio una festa collettiva in un Paese sereno. Per la composizione dell’inno ufficiale venne scomodato il talento di Ennio Morricone per una musica definita da molti commenti sotto ai diversi video di Youtube “la canzone più bella” dei Mondiali.

«Chiedo a Dio, nostro Signore, che questo evento sia davvero un contributo per affermare la pace, quella pace che tutti desideriamo per il mondo intero e per tutti gli uomini del mondo».

Il discorso di Videla alla partita inaugurale davanti ad uno stadio Monumental stracolmo di gente fino a traboccare mi fan un certo effetto a distanza di tanti anni, nonostante non fossi nemmeno nato in quel periodo. Quello del “tenente generale” è un discorso sovraccaricato di ipocrisia, proprio come sovraccarico di entusiasmo ingenuo è il pubblico argentino accorso all’evento.

In quegli anni sono pochi i gruppi di attivisti pronti a ribellarsi a tutto ciò, così come sono poche le nazioni contraiate e pronte al boicottaggio. L’idea di sabotare la competizione non era diffusa e consapevole come lo è oggi l’interesse a boicottare il Mondiale di Qatar 2022.

L’idea di associare un inno, una canzone ufficiale ad un Mondiale rientra a pieno merito nel concetto di intrattenimento celato dietro all’organizzazione di una competizione del genere. I Mondiali di calcio sono diventati un evento di consumo di massa e gli inni sono diventati praticamente un sottogenere culturale.

La prima volta di un inno ufficiale per un Mondiale è stata la volta di Cile 1962, un’altra edizione dei Mondiali tra le più contestate.

Il Paese destava in condizioni disastrose. La decisione di concedere l’organizzazione al Cile fu contestata fin dalle prime battute a causa delle carenze infrastrutturali (alle quali si aggiunge il terremoto violento del 1960).

La spedizione in terra cilena va ricordata tra le più memorabili e violente a scapito della nazionale azzurra.

Un articolo a firma del giornalista Corrado Pizzinelli firma in quegli anni del quotidiano La Nazione e inviato ai Mondiali, definiva il Cile in uno stato di “Denutrizione, prostituzione, analfabetismo, alcoolismo, miseria”.

Un periodo turbolento per il Paese che cercava con Frei Montalva di realizzare la “Rivoluzione in Libertà”. Una serie di manovre e privatizzazioni che provocarono diversi scontri in quel periodo.

I primi e più memorabili esempi “globali” di Sportwashing risalgono tutti agli anni ’30 e accendono i riflettori sui Mondiali organizzati dall’Italia, e successivamente le Olimpiadi in Germania nel 1936.

Il primo evento fu fortemente voluto da Benito Mussolini per innalzare lo spessore della nazione e la grandezza del fascismo nell’immaginario collettivo nazionale.

Chiunque sia mai entrato nel Museo del Calcio di Coverciano, non avrà avuto difficoltà ad imbattersi in fotografie di repertorio che immortalano Benito Mussolini con l’intera selezione nazionale di calcio dell’epoca.

Il secondo evento, le Olimpiadi, sono state fortemente volute dal regime nazista per regalare al pubblico e ai giornalisti internazionali l’idea di una Germania unita e pacifica. Un Paese che in quelle poche settimane tenne a bada le mire espansionistiche e la radice antisemita.



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Quando Jorge Videla pronunciava il suo discorso di apertura dei Mondiali del 1978 al Monumental, a poco più di 500 metri si poteva raggiungere la Escuela Mecánica de la Armada, una scuola militare usata in quel periodo per rinchiudere e torturare i dissidenti del regime.

Tamīm bin Āl Thānī, l’emiro del Qatar tra quelli che hanno voluto inserire un paese del Golfo Persico nella cartina del calcio mondiale, ha circoscritto gli stadi della competizione in un’unica città, Doha, tutti in un raggio di 17 chilometri di distanza.

Alcuni degli stadi del Mondiale sono isolati dal centro urbano, altri, come lo Stadium 974, scompariranno dopo la competizione. Proprio come il Qatar spera di far scomparire, attraverso un Mondiale usa e getta, il senso di colpa definito dalla morte di più di 6.000 operai addetti alla costruzione degli stadi e di diritti umani non rispettati. 



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