Ha davvero senso boicottare Qatar 2022?
Il fatto di sentire parlare di boicottaggio di Qatar 2022 solo negli ultimi mesi è un qualcosa che lascia l’amaro in bocca.
L’assegnazione ad uno stato che ha un numero di abitanti che è la metà di quelli di una città come Roma, ed è totalmente privo di cultura e tradizione calcistica è stato un errore. Uno sbaglio di cui si è reso conto e successivamente pentito anche l’ex Presidente FIFA Sepp Blatter, il maggiore artefice di questa scelta.
Il boicottaggio in effetti andava fatto a ridosso della scelta, quando un cambio di direzione sarebbe stato effettivamente possibile.
Oggi invece i giochi sono fatti e ormai non si può più tornare indietro.
Boicottare la visione delle partite servirebbe a poco. Al Qatar non interessa ostentare insight interessanti inerenti alla partecipazione televisiva o agli stadi (probabilmente pagherà per assicurarsi la seconda). Al Qatar non interessa fare ricavi attraverso l’organizzazione della ventiduesima edizione della Coppa del mondo.
Ai vertici dello stato emiro interessa aumentare l’autorevolezza agli occhi del proprio popolo, acquisire la benevolenza dell’Occidente e avere un deterrente in più per fare affari in Europa. Il boicottaggio non attecchirà verso nessuno di questi obiettivi.
Per questo è un vero peccato non aver assistito al risveglio delle coscienze prima, quando qualcosa era ancora possibile. Vero che la coscienza del tifoso verso le questioni extra campo è cresciuta nel corso degli ultimi 12 anni (l’assegnazione è avvenuta nel 2010). Si è visto con la vicenda Superlega dove paradossalmente il tifoso ha fatto le veci di un organizzazione di politica sportiva, la UEFA, per allontanare l’idea oligarchica del calcio.
Gli effetti sono stati impressionanti, ed è per questo che resta l’amaro in bocca.
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Non guardare i Mondiali in televisione, ridimensionandone lo share, non avrebbe effetti verso uno stato monarchico che non avrebbe problemi ad oscurare dati e informazioni che giocherebbero a proprio sfavore. Il boicottaggio poi, come abbiamo visto in molti casi, ha un effetto molto più diretto e considerevole per un brand. Se non compro un prodotto, il brand riduce i ricavi, motivo per cui deve considerare anche le variabili sociali ed umane del proprio ecosistema aziendale.
Con i Mondiali, purtroppo, non funziona così.
Uno stato capace di costruire ex novo nel deserto quasi tutti gli stadi, spendendo 210 miliardi di euro per l’organizzazione della competizione (molto di più della spesa aggregata di tutte le 21 edizioni precedenti) non teme lo share televisivo più basso della storia della manifestazione, forse lo temono gli sponsor, attori che questa volta si sono trovato sul carro sconveniente.
Il Mondiale in Qatar va raccontato. Sulle morti di quasi 7.000 operai durante la costruzione degli stadi, dei diritti umani non rispettati all’interno dello stato, dell’impatto ambientale per nulla sostenibile provocato dalla competizione: è su questo che vanno accesi i riflettori.
Non raccontare questi aspetti del Mondiale in Qatar vorrebbe dire atrofizzare la funzione giornalistica dei media, significherebbe non stimolare il senso critico del pubblico, vorrebbe dire insabbiare il presente.
Quel presente che domani sarà passato e che ci sarà utile per interpretare il futuro, e magari chissà, comprendere l’entità di uno sbaglio al quale avremmo potuto rimediare.
Come scrive il vicecaporedattore della sezione inchieste del settimanale “Die Zeit” Yassin Musharbash: “Boicottare le partite in tv somiglia più a mettere il broncio che a fare una protesta efficace”.
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