Veronica Gentili (Facebook Marketing Expert): “Tutti usano Facebook, pochi hanno capito cosa realmente può fare”

Abbiamo intervistato Veronica Gentili, uno dei maggiori esperti di Facebook Marketing in Italia. Con Lei abbiamo provato a comprendere meglio le potenzialità di questo strumento applicato al mondo del calcio. 

Buongiorno Veronica. Partiamo subito con una domanda diretta: secondo te le società di calcio hanno compreso appieno le potenzialità di Facebook?

Allargando il ragionamento un po’ a vari settori italiani e non, quello che posso dire è che mi è capitato spesso di interagire e collaborare con aziende anche molto grandi che vedono in Facebook “un giocattolo” con il quale racimolare like, condivisioni e commenti, quando in realtà può rivelarsi un potentissimo strumento di marketing in grado di supportare il brand in tutte le fasi del coinvolgimento del proprio utente finale attraverso strumenti sofisticati come il pixel, le lookalike, i pubblici personalizzati e molto altro.

La Juventus, il Milan, l’Inter, Roma, Napoli, cioè le sette grandi sorelle diciamo, partono dal presupposto che loro sono un Love brand. Qualsiasi cosa pubblicano ha un’organic reach ed un engagement altissimo senza il bisogno di utilizzare le leve del marketing delle piattaforme di advertising. Quale è il limite di questa strategia?

Ciò di cui in molti non tengono conto è che su Facebook c’è un vero e proprio limite strutturale, che negli anni si è fatto sempre più evidente: avendo avuto modo di lavorare con brand piccoli e grandi, con pagine dalle poche migliaia ai milioni di fan, con brand sconosciuti e veri e propri love mark, quello che ho imparato è che non importa quanto sei grande e amato dal tuo pubblico, per come funziona l’algoritmo di Facebook raggiungi sempre e solo una parte dei tuoi fan, per quanto tu possa essere un lovemark, non raggiungerai mai la totalità delle persone che ti seguono; potrai andare a raggiungere molte persone grazie alle condivisioni, ma se andrai a scavare nei dati della Portata Organica ti accorgerai che tra quelle solo una piccola parte è costituita dai fan.

Questo che significa? Che comunque ci sono dei fan che non ti vedono da giorni, da settimane, da mesi.

Sicuramente è bene raggiungere le persone fuori dalla fan base, ma un lovemark non dovrebbe limitarsi solo a questo e quindi lavorare anche sulla retention, cioè sul mantenere vivo il rapporto con le persone che hanno scelto di seguirlo (i fan o i follower), che fino a qualche anno fa raggiungeva molto facilmente, ora con l’affollamento della piattaforma e le modifiche dell’algoritmo, non più.

Senza contare che, inoltre, c’è tutta una parte di brand awareness, di lead generation, di vendita che si può fare benissimo attraverso i social, ma è necessario avere del budget media per avere buoni risultati.

Merchandising, e-commerce, cross selling tra i prodotti e le altre offerte: il budget su Facebook è indispensabile per un club di calcio?

http://dev.socialmediasoccer.com/Ciò che ho osservato in questo settore è che molte squadre, anche piccole, hanno un e-commerce associato al sito o anche una piccola sezione shop ed è davvero un gran peccato non avere una strategia di retargeting e non tracciare quanti acquisti derivano dalle proprie campagne su Facebook, quando questo strumento, se ben utilizzato, ti permette di capire l’esatto ritorno sull’investimento pubblicitario generato dalle campagne fatte (il cosiddetto ROAS).

http://dev.socialmediasoccer.com/Quante squadre hanno una sezione shop? Quante hanno installato il pixel di Facebook? Quante fanno campagne di retargeting dinamico per ridurre il tasso di abbandono e aumentare il valore degli ordini?

http://dev.socialmediasoccer.com/Per riuscire a massimizzare i risultati in termine di vendita sì, è davvero indispensabile un budget media e potrebbero sorprendervi i costi per acquisizione e i ritorni che porta Facebook rispetto ad altri strumenti/canali pubblicitari!

Questo a tuo avviso è perché la maggior parte dei club non si sono ancora strutturati?

Come dicevamo, accade spesso in tanti settori, non solo nel calcio, che non ci sia una conoscenza approfondita circa le potenzialità della piattaforma, per cui viene tutto incredibilmente semplificato; di solito Facebook viene visto come una cosa molto semplice, un presidio che può tranquillamente gestire “un giovane” che abbia un minimo di dimestichezza con i social, che non necessita di grandi competenze o investimenti.

In realtà, approfondendo, si può vedere come disponga di sofisticatissimi strumenti di marketing che permettono, ad esempio, di raggiungere le persone più propense a ricordarsi il nostro annuncio, a cliccare sul link, a lasciarci il loro contatto e così via, quindi, non capendo le potenzialità dello strumento accade sovente che non si strutturi un vero e proprio team dedicato per lo stesso.

Parliamo di real time e streaming. I grandi eventi visti da un punto di vista social ha ancora marginalità secondo te? Twitter sul real time funziona bene, Facebook a tuo avviso?

Su Facebook i contenuti in tempo reale funzionano bene perché comunque uno degli elementi principali che l’algoritmo prende in considerazione è la recency, cioè quanto è fresco il contenuto pubblicato.

Ciò accade specialmente per i video live, formato al quale Facebook offre grande visibilità.

Certo è che non è ancora minimamente paragonabile all’impatto che ha Twitter sulla conversazione in tempo reale, specialmente grazie alla visibilità che hanno i Trending Topic (che in USA Facebook aveva integrato e poi dismesso a giugno di quest’anno).

Dall’altra parte, c’è da dire che Twitter non gode, specialmente in Italia, della mole di utenti e del tempo medio/mese di utilizzo della piattaforma di cui gode Facebook, leader indiscusso, ma d’altra parte Facebook ha anche un sistema di ricerca interno, la cosiddetta Graph Search, molto complessa e lacunosa, che rende davvero molto complicato seguire le conversazioni e partecipare in real time su un determinato evento, quindi, finché Facebook non si attiverà in modo strutturato sul fronte Real Time saremo in una situazione di empasse.

Vale però la pena ricordare che Facebook ha sempre avuto un occhio di riguardo per il mondo sportivo, basti pensare al lancio di Facebook Sports Stadium, e che credo sia importante tenere d’occhio anche Watch, la piattaforma video creata da Facebook e le sue possibili evoluzioni.

Ancora non è disponibile in Italia, ma già in America permette di visionare serie tv, programmi, e documentari direttamente su Facebook, di creare dei veri e propri gruppi di “ascolto” intorno agli stessi con i cosiddetti Watch Party e, allo stesso tempo, permette ai brand di monetizzare tramite l’offerta di questi contenuti.

Il Real Madrid è stata una delle prime squadre a valorizzare la piattaforma, con un vero e proprio documentario sul dietro le quinte della squadra narrato da Orlando Bloom, direi che le possibilità di crescita per il mondo del calcio tramite gli strumenti di Facebook siano davvero tantissime.

Veronica, tornando al discorso dei calciatori: inseriresti la formazione all’utilizzo dei canali social all’interno dell’attività dei calciatori?

Credo che una formazione alle logiche e agli strumenti dei social sia necessaria per il personal branding del calciatore, anche perché è attraverso questi spazi che si racconta e crea una community intorno al proprio brand ed è fondamentale sia in ottica di eventuali sponsorship (sempre di più nella scelta di un testimonial si prende in considerazione anche il seguito social che ha) che anche solo e semplicemente per non creare danni di immagine a se stessi e alla propria squadra, comunicando messaggi sbagliati o magari messaggi dal significato “giusto”, ma nel modo sbagliato.

Soprattutto per chi gestisce i social in autonomia, credo sia fondamentale capire bene le potenzialità e i rischi di questi strumenti, attraverso i quali passa sempre più la comunicazione dei personaggi pubblici.

Si può dare un valore ad un account social di un calciatore? Quali sono secondo te le metriche più rilevanti da prendere in considerazione?

Secondo me gli indicatori di performance da tenere in considerazione sono in primis: l’Engagement Rate, (è facile comprare e quindi avere una marea di follower, ma quanti realmente interagiscono con noi?), l’aspetto quali-quantitativo dell’audience, inteso non solo come volume della base follower (che purtroppo in molti vedono come indicatore primario nella scelta dell’influencer di turno) ma anche come corrispondenza socio-demografica alla target audience della campagna che abbiamo in mente. Mettiamo il caso che voglia raggiungere la fascia maschile italiana 18-24 interessata all’abbigliamento di lusso per il lancio di una nuova linea, sarebbero soldi buttati quelli investiti in un influencer che sì, ha moltissimi follower, ma la maggior parte di loro ha tra i 35 e i 45 anni ed è francese, no?

Un altro parametro di cui assolutamente tenere conto è l’allineamento dell’influencer scelto con i valori del brand: facendo una campagna di influencer marketing associamo il nostro marchio a quella determinata persona, ma rispetta i nostri valori, il nostro modo di comunicare, il nostro tono di voce?

Ciclicamente sembra morire qualcosa nel marketing: muore la SEO, il digital marketing, stanno morendo anche gli influencer?

Gli influencer, nel vero senso della parola, non moriranno mai, proprio perché esistono dall’inizio dei tempi.

Un influencer è semplicemente una persona che riteniamo competente e per noi influente in un determinato ambito, semplicemente oggi gli siamo andati ad attribuire un’accezione quasi sempre legata al web.

Il punto è che il mercato secondo me si sta un po’ stancando di questa sindrome dell’influencer basata molto sui numeri e poco sulla qualità, anche perché ancora non c’è una normativa chiara in merito e questo va a influire sulla credibilità degli stessi (in quanti utilizzano l’hashtag #ad o un chiaro simbolo riconducibile al fatto di essere stati retribuiti per quel determinato post branded e in quanti invece hanno gallerie stracolme di “post-marchetta” non dichiarati? Quanti comprano decine e decine di migliaia di follower finti solo per salire nell’Olimpo dei più seguiti?). Quindi si, forse il mercato (e quindi gli utenti) si sta stancando di questo fenomeno e cerca modi più strategici e chiari per sfruttare il posizionamento di certi personaggi, ma gli influencer ci sono e ci saranno sempre. Tutto sta nel vedere come verranno integrati via via nelle strategie in continua evoluzione.

Sicuramente le prestazioni sportive incidono nella costruzione di un brand. A tuo avviso però un calciatore ad esempio di medio livello può comunque diventare un influencer e generare altri ricavi pur non essendo un’eccellenza magari nel suo sport?

Secondo me sì. Nel momento in cui riesce a fare bene un buon personal branding, ovvero a valorizzare i suoi talenti attraverso i social, può assolutamente diventare un micro o macro influencer in un determinato ambito; chiaramente un calciatore affermato e apprezzato ha maggiormente possibilità di avere un seguito per le sue qualità sportive, tuttavia niente toglie che un collega, magari meno bravo, ma con uno spiccato gusto e predisposizione al racconto nell’ambito fashion, possa posizionarsi in quella determinata nicchia e monetizzare.

Massimo Tucci

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