Pardo: "I social sono utili se usati bene. Un digital staff può aiutare a commettere meno errori"

 

Giornalista, conduttore televisivo e commentatore, uno dei comunicatori più istrionici del panorama italiano, Pierluigi Pardo, racconta a Social Media Soccer il suo rapporto con i social media e come è cambiato il giornalismo sportivo con l’avvento dei nuovi media. Non mancano anche alcuni consigli preziosi ai calciatori per sfruttare al meglio la loro presenza su Internet.

Cinquecentoquarantottomila follower su Twitter con 15.800 tweet fatti da lei, quasi 520.000 su FB, 320.000 Followers su instagram. Non sono poi tanti i calciatori di Serie A che hanno numeri superiori ai suoi social. Quanto è importante oggi per un giornalista/comunicatore a tutto tondo come lei essere presente sul web?
E’ importante innanzitutto per poter avere una comunicazione h 24 ed esprimere la propria opinione anche quando non si ha una telecamera accesa e non si è in diretta. E’ importante poi per stabilire un rapporto di fedeltà, di amicizia, di critica costruttiva e di scambio di idee con il pubblico. Detto questo, però, i social non devono diventare lo strumento principale nella vita di un giornalista.

Lo storytelling dei suoi social non si limita al calcio, agli amici, alla sua passione per il mare: è bravo a sfruttare il grande seguito che ha anche per promuovere e sostenere iniziative come Dynamo Camp e Liberi Nantes. Fa tutto da solo o si fa aiutare da uno staff digital?
Faccio tutto da solo, non ho uno staff perché ho un approccio un po’ destrutturato. Non uso i social network come se avessi un piano editoriale, ma in maniera istintiva. Il rapporto con Liberi Nantes e Dynamo Camp è duraturo, e trovo abbastanza normale che il web venga usato anche per queste iniziative, così come quando ci sono emergenze e gli utenti condividono informazioni utili su Twitter.

Qual è il giocatore che milita nella nostra serie A che secondo lei avrebbe le maggiori potenzialità per essere un influencer alla Ronaldo, in piccolo ovviamente, visti i numeri quasi irraggiungibili del portoghese?
I calciatori hanno sicuramente una grande potenzialità in termini di comunicazione, ma è anche vero che, per quella che è la natura dei social network e per quella che è la vita di un calciatore che passa dalla vittoria alla sconfitta, questi strumenti possono diventare anche pericolosi. Per cui una regola fondamentale, che vale per tutti i personaggi pubblici e non solo i giocatori, è fare meno errori possibili. I social network sono uno strumento utile, ma vanno usati con grande prudenza, soprattutto se hai un alto numero di followers. I calciatori devono prestare particolare attenzione, se sbagliano una frase vengono etichettati e vanno incontro a processi via web che possono durare mesi. Insomma, ci sono molte potenzialità ma i profili devono essere gestiti da gente molto brava, da uno staff che li aiuti a comunicare sui social in modo dosato, poco e a tutti, evitando cioè di cadere nella tentazione di ingaggiare polemiche one to one con i follower, tra cui ci sono quelli che li acclamano, ma anche tanti propensi all’insulto. I social possono essere utili sia da un punto di vista dell’immagine – se usati bene - che, non nascondiamolo, da un punto di vista commerciale. In Serie A un personaggio che mi piace molto, che ritengo molto interessante, è De Rossi e di lui mi colpisce proprio il fatto che non abbia i social network.

Un po’ di sensibilità del pubblicitario le sarà rimasta: un grande club si giudica anche da come comunica sui social?
Sicuramente sì e in questi ultimi anni si sono visti dei passi in avanti. Il caso interessante è quello del Milan. Quest’estate aveva bisogno un po’ di recuperare consenso e di parlare direttamente ai tifosi e la disintermediazione attraverso i social lo ha portato a raggiungere questo obiettivo. Hanno messo in piedi tutta una serie di cose abbastanza forti, a cominciare dal ruolo di capitano che è stato affidato a Bonucci. La disintermediazione è una caratteristica dei nostri tempi, ovvio che poi quando le cose non vanno bene sul campo, questo tipo di strategia diventa un’arma a doppio taglio, ma questo nel calcio vale sempre.

Quali sono le squadre di Serie A che comunicano meglio secondo lei?
Naturalmente Juve e Milan hanno dei numeri impressionanti, nettamente superiori all’Inter, questo vuol dire che hanno lavorato bene dal punto di vista del brand. Anche la Roma sta facendo bene. Sono queste cinque squadre quelle che fanno cose più belle e divertenti sui social: Juve, Milan, Roma, Napoli e Inter.

I profili dei calciatori sono ormai diventati una delle fonti primarie per raccogliere notizie. Come è cambiato il giornalismo sportivo nell’era dei social?
E’ cambiato moltissimo, perché ci sono giorni in cui si trovano più notizie e spunti su una pagina Instagram di un calciatore o di una compagna del calciatore piuttosto che seguendo una conferenza stampa. E’ un paradosso dei nostri tempi: mentre gli addetti stampa hanno ridotto le opportunità di accesso dei giornalisti ai calciatori, gli stessi calciatori hanno oggi la libertà di pubblicare sui loro profili h 24 e certe volte dire delle cose che sono anche molto interessanti. Insomma, la comunicazione di un calciatore è sempre meno soltanto tecnica e più mirata a farne un personaggio. Faccio l’esempio di Icardi: sono certamente interessanti le dichiarazioni pre-partita, ma anche il post sui social con Wanda Nara. Questo vale anche per noi giornalisti. Che ci piaccia o no ormai fa più rumore se scrivo una cosa su Twitter, Facebook o Instagram dove ho potenzialmente 500.000 persone che la vedono subito e viene alimentata da tutti, piuttosto che se la metto in un articolo di giornale.

Non solo i calciatori: le loro donne, compagne, mogli si danno un bel da fare, qualche volta anche troppo?
E non vale solo per le donne, anche al contrario se immaginiamo ad esempio il compagno di una grande attrice o di una cantante. Vige la libertà di tutti di poter commentare ovviamente, certo che poi se si fanno cose inopportune si commette un errore.

Potrebbe essere utile un po’ di educazione digitale per i calciatori?
Come dicevo prima ci vuole delle gente brava che, se non vuoi che ti gestisca i profili, quanto meno ti dia dei buoni consigli. La risposta a una domanda di una singola persona sui social è quasi sempre da evitare, così come quelli che fanno video mentre guidano e poi lo postano sulle storie di Instagram che non è proprio il massimo come esempio da dare per l’educazione stradale. Per me i calciatori non devono dire la loro su tutto, devono comunicare poco e bene. L’approccio che consiglierei a un giocatore è quello di utilizzare i social per appoggiare campagne positive, sostenere delle idee in cui credono e che siano meritevoli e poi fare cose divertenti.

In Italia sono ancora pochi gli allenatori che si sono attrezzati per comunicare con i propri tifosi via social: Allegri, Montella - anche se è poco attivo - , Spalletti sbarcato da poco tempo. Quelli più operativi e organizzati sul web  come Conte, Ancelotti e Mancini sono andati ad allenare all’estero. E’ solo un caso oppure i grandi club oggi richiedono anche una presenza e un’immagine che vada di pari passo con quella delle società in cui allenano?
Sarebbe positivo se fosse così, se ci fossero società che spingessero a stare sui social, visto che non starci è quasi controtempo. Ma credo che in un mondo del calcio in cui gli addetti stampa hanno soprattutto, legittimamente, l’obiettivo di evitare polemiche, i social rappresentino un rischio. Per gli allenatori però è diverso, sono più saggi, il rischio di commettere errori è ridotto e spesso sono supportati dai digital editor dei club o comunque immagino ci sia un minimo di coordinamento con le società nella gestione dei profili. La comunicazione in ogni caso è sempre utile, bisogna essere bravi a evitare gli errori, gli scivoloni… A meno che non ne valga la pena, perché vuoi dire delle cose in cui credi e a cui tieni.

Il personaggio che lei descrive nella sua ultima fatica letteraria “Lo stretto necessario” (Rizzoli Editore), si muove nel 2006, quando i social network non avevano ancora fatto irruzione nelle nostre vite. Giulio, il protagonista, è anche lui un pubblicitario come lo è stato lei. Come lo avrebbe raccontato se nell’impianto narrativo ci fossero stati anche i Facebook, i Twitter e i selfie di Instagram?
Nel romanzo il principale colpo di scena (che non racconto per non rovinare  la sorpresa a chi ancora non l’ha letto) è possibile proprio perché il romanzo è ambientato nel 2006, nell’epoca in cui c’erano i primi smartphone ma non la messaggistica in tempo reale come la intendiamo oggi. C’erano solo le email e gli sms, ovvero strumenti a cui si rispondeva dopo qualche ora, dopo qualche giorno. Mancava, insomma, l’ossessione della spunta blu. Questo colpo di scena nel 2017 sarebbe stato difficile accadesse, perché dopo mezz’ora si sarebbe saputo tutto. Sarebbe stato poco credibile quello sviluppo che troviamo nel romanzo che porta un pubblicitario di successo durante il mondiale del 2006 a seguire il suo migliore amico, in crisi, in un viaggio verso il sud, verso la Puglia e lo spinge alla fine a misurarsi con problemi più grandi, a capire le cose realmente decisive della sua vita e a scegliere lo stretto necessario.

 Giulia Spiniello

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