“Poor but sexy”, povera ma attraente.
Tra i modi per definire Berlino è diventata rappresentativa una definizione coniata dall’ex sindaco Klaus Wowereit, pronunciata per descrivere la città che ha governato per un tempo.
Una città che in effetti non rappresenta il vero centro nevralgico dell’economia della Germania, un ruolo che spetta più a Monaco, ma che ogni anno attrae migliaia di persone, viaggiatori o lavoratori, grazie alla sua identità camaleontica.
Berlino sa essere specchio dei cambiamenti della società e non resta quasi mai uguale nel tempo. È proprio questa caratteristica che rende la capitale tedesca unica nel suo genere, difficilmente omologabile o paragonabile ad altre città del Paese, e forse nemmeno del nord Europa.
Anzi, la metamorfosi non avviene nemmeno in modo omogeneo tra i vari distretti della città, che anche da questo punto di vista risultano indipendenti tra loro. A Berlino regna la multiculturalità più che in altri posti, e questo si riflette su ogni quartiere e addirittura su ogni fermata della metro o attività commerciale.
Ogni fermata dei mezzi pubblici su rotaia è differente l’una dall’altra.
Un effetto che restituisce l’immagine di una Berlino come incastro perfetto di più quartieri differenti tra loro, e non quella di una città uniforme. Berlino, del resto, ha una storia particolare. Il muro eretto dal 1961 sino al 1989 ha diviso non solo la città in due parti, ma anche il mondo intero in un certo senso.
Così che un certo tipo di cultura, influenze e costumi potevano finire ad ovest anziché ad est, influenzando poi tutto il resto.
È proprio nel luogo in cui è presente ancora un pezzo di muro che inizia il mio viaggio a Berlino.
Precisamente nel quartiere di Prenzlauer Berg, dove c’è il Friedrich-Ludwig-Sportpark, un complesso sportivo che alterna diversi impianti sportivi all’interno di un’area verde gigante.
Tra questi lo stadio della Dynamo Berlino, la squadra affrontata (e battuta) dalla Roma nella semifinale di Coppa Campioni del 1984. Per molti conosciuta per essere stata la squadra supportata dalla Stasi, i servizi segreti della DDR.
Nella seconda parte degli anni del muro la Dynamo è stato il club più titolato di Germania, tanto da diventare la prima squadra a vincere una partita in Inghilterra in Coppa Campioni, battendo una vittima di lusso come il Nottingham Forest di Clough che nella stessa edizione vinse il trofeo.
Nel momento in cui sto scrivendo questo reportage la Dynamo è impegnata in Regionalliga Nordost, tra i semiprofessionisti, e gioca solo le partite più importanti al Friedrich-Ludwig-Sportpark, uno stadio che ancora oggi grazie ai suoi 20.000 posti si contende il titolo di secondo impianto più grande di Berlino (finché il processo di ampliamento dell’An der Alten Försterei non sarà terminato).
Fare una visita a questo stadio e al quartiere è ancora ora una di quelle cose che più di altre possono avvicinarti alla storia passata della Germania e di Berlino.
Nonostante lo stadio si trovi in un complesso sportivo ricco di strutture e attività all’aperto, la passeggiata attorno all’ex stadio della Dynamo sembra avvolta da un guscio che ovattava i rumori più acuti di persone e tram a pochi metri di distanza. Sembrava quasi ci fosse una pellicola che proteggesse la storia affascinante e drammatica cementatasi da queste parti. Lo stadio, nonostante sia dotato di fari di luce che rispettano gli standard richiesti dalla modernità dei regolamenti, conserva ancora l’illuminazione, ormai non funzionante, appartenente a decadi precedenti.
Lo fa proprio per non rimuovere il peso dello storia, oltre che per conservare un vezzo stilistico di quegli anni di un impianto costruito su un terreno in salita (sembrerebbe per permettere ad alcuni alti ufficiali della Stasi di sostare in macchina sul punto più alto e assistere alla partita senza entrare allo stadio), con questi lampioni “storti”, inclinati verso il manto erboso.
L’effetto inclinato ricorda i lampioni delle torrette di sorveglianza del Muro. Un pezzo di storia straziante della Germania che conserva le sue ultime testimonianze proprio a poche centinaia di metri dal Friedrich-Ludwig-Sportpark.
Allontanandosi dallo stadio, infatti, si può scorgere ancora il solco creato dal Muro che divideva la Germania in Est e Ovest.
La storia dell’impianto, e quindi della Dynamo stessa, appartiene alla Stasi per poche centinaia di metri, data la posizione ad Est a pochissimi metri dal confine. Un posizionamento nella stessa divisione di città in cui rientrava anche l’Union Berlin, club che proprio per questo motivo vede proprio nella Dynamo il suo vero storico rivale.
In questo viaggio di venerdì nel quartiere di Prenzlauer Berg mi munisco della guida e della compagnia di Giovanni Armanini, giornalista e coordinatore della redazione di Onefootball Italia che dal 2019 vive a Berlino.
“Arma” ci tiene a portarmi a vedere la linea divisiva creata dal muro e che oggi è contrassegnata da due righe e una targa con l’incisione “BERLINER MAUER 196-1989”, in effetti è un momento emblematico.
È affascinante pensare a come ora al posto di un pezzo di muro ci sia un parco che anziché dividere crea momenti di incontro e socializzazione.
L’unico muro rimasto nel parco è una distesa di cemento molto lunga in cui decine di writer si riuniscono settimanalmente per creare le proprie opere che spesso e volentieri si rifanno a fatti di cronaca capitati nelle settimane precedenti, così da creare, come dice Giovanni “una cosa simile ad un feed di notizie che ti racconta volta per volta cosa sta succedendo nel mondo. Quasi un social offline”.
Tra una birra e qualche sguardo distratto ad una partita di calcio dilettantistico, dobbiamo fare pochi passi per raggiungere un altro piccolo pezzo di storia sportiva e culturale presente al Friedrich-Ludwig-Sportpark: la statua “Stop in corsa” dello scultore Mario Moschi.
Un simbolo installato in un luogo simbolico per il calcio a Berlino e rimasto intatto dal 1937 ad oggi, “sopravvivendo” quindi a due dittature, quella nazista e quella comunista, come mi racconta sempre Giovanni che a questa storia ci ha dedicato un video su Youtube (ispirandosi da questo blog che parla di arte nel calcio).
Lo sport nell’epoca fascista era un ottimo modo per veicolare le imprese e la grandezza dell’Italia nel mondo, un vettore di politica estera.
In aggiunta, le statue erano cominciate ad essere viste come un mezzo significativo per veicolare un messaggio e lo stile assunto da una nazione, in questo caso essenziale e classico tipico di dittature come quella nazista. L’atleta rappresentato nella statua rispecchia per certi versi questo stile, oltre a portare in Germania l’aurea di un Italia campione del Mondo di calcio e successivamente oro proprio in questa disciplina alle future Olimpiadi di Berlino del ’36. Tutto combaciava alla perfezione per far sì che l’opera pensata da Moschi, già premiata dal CONI, diventasse un dono alla Germania di Hitler.
Stop in corsa diventa così uno dei tanti simboli che sanciscono l’amicizia tra Italia fascista e Germania nazista, tanto da diventare un regalo destinato al Führer già dai tempi dell’Olimpiade, prima di trovare collocazione definitiva e tutt’ora attuale nel parco Friedrich-Ludwig-Sportpark.
Una sistemazione che resta appunto invariata dagli anni 50 in poi, quando quella parte di Germania viene contrassegnata come Est e quindi sotto il governo comunista che chiude un occhio e lascia intatta la statua che aveva segnato metaforicamente una stretta di mano tra regimi antecedenti.
«Una cosa fondamentale a Berlino è l’identità. Qui ci sono tante squadre che nascono dai quartieri, da etnie diverse che vogliono aggregare la propria comunità.
La scorsa settimana per dire, ero a vedere i Croatia Berlin (aggiungo io dopo qualche ricerca, una squadra con croati, portoghesi, turchi, tedeschi e un macedone, ovvero il portiere, nella rosa) .
Un modello che funziona bene nei livelli dilettantistici».
La chiacchierata al Friedrich-Ludwig-Sportpark con Giovanni si chiude così, poi sotto con un'altra pinta e si ritorna a casa, non prima di un giro doveroso ad Alexanderplatz, il primo giorno sta per terminare.
Il tedesco è una lingua piena di parole composte e con un onomatopeica ostile a molti. Termini che al primo ascolto possono sembrare impossibili da replicare o decifrare.
Ma c’è una parola che dà il nome ad una location di culto per gli appassionati di sport, ma anche ad una fermata del treno come ho scoperto in quei giorni a Berlino. Un nome che genera ancora qualche brividino a tutti gli italiani nati prima del 2006, tanto da poterci permettere uno spelling a cuor leggero: O-l-y-m-p-i-a-s-t-a-d-i-o-n.
Più precisamente: Olympiastadion di Berlino, lo stadio della finale in cui l’Italia ha alzato la quarta Coppa del Mondo della sua storia. Per un italiano, calciofilo che nel 2006 aveva 14 anni, venire per la prima volta a Berlino e passare da quello che è un pezzo di storia nostrale, è come chiudere un cerchio.
È come aggiungere il pezzo mancante al puzzle della propria adolescenza.
Così un sabato mattina di quelli in cui ti senti più leggero rispetto agli altri giorni della settimana, in concomitanza del primo sole che anticipa l’arrivo della primavera in Germania, decido che è il momento ideale per prendere il treno dalla fermata della metro di Bellevue direzione Spandau.
In meno di un’ora mi si spalancheranno le porte di quello che è stato il teatro di una partita di calcio che ancora oggi conserva un record intatto: la finale di un Mondiale più vista in televisione.
Tempo un’ora e arrivo a destinazione. Ecco la fermata Olympiastadion. Prima bisogna passare da diverse altre fermate, poco prima di una di queste c’è un quartiere molto colorato e con diversi murales, uno su tutti è quello di un calciatore che non riesco a decifrare del tutto, perché distratto lo intravedo solo con la coda dell’occhio all’ultimo secondo, mi sembrava una raffigurazione di Lukas Podolski, per altro il miglior giovane under 21 del Mondiale del 2006.
All’arrivo il treno è praticamente vuoto. Scendono insieme a me una decina di persone, forse anche meno, 2 di queste le ritroverò con me nel tour guidato nello stadio.
Bastano 10€ per acquistare un tour con una guida in inglese o in tedesco a disposizione per un’ora. Acquisto il biglietto (si può fare anche online, dove è possibile solo su prenotazione acquistare anche un tour alternativo per visitare la parte tecnologica dello stadio).
Il quartiere è praticamente immerso in un’enorme area verde. Nel tragitto, infatti, incrocio solo persone che fanno jogging. Nei paraggi si fa fatica ad intercettare attività commerciali o plessi residenziali. È una zona esterna alla città e lo stadio rispecchia quest’anima essenziale e il minimalismo architettonico tipico delle strutture rimaste intatte dai tempi del regime nazista.
L’Olympiastadion è figlio di quei tempi e degli sforzi fatti dal regime per averlo pronto alle Olimpiadi del 1936, quelle in cui l’Italia riuscì a trovare un trionfo inedito: la medaglia d’oro nella disciplina del calcio. Un onore che fece eco al trionfo nei Mondiali solo 2 anni prima, e che in un certo senso anticipa la seconda stella che arriverà nel 1938. È in momenti come questi forse che Mussolini intuisce le potenzialità dello sport come mezzo di propaganda e politica estera.
Entro così a far parte dei 300.000 visitatori di media che registra ogni anno l’Olympiastadion di Berlino.
Lo stadio è, ripeto, davvero essenziale. La visibilità paga qualcosa a causa della pista di atletica, ma, nonostante ciò, si riesce a percepire l’imperiosità e l’autorevolezza dell’impianto grazie alla traccia lasciata dai grandi eventi che si sono susseguiti qui.
La cosa che mi stupisce più di tutte mentre faccio un giro di 360° intorno agli spalti però, è il fatto che tutto lo stadio ha dei seggiolini identici per ogni settore, senza distinzione tra le prime file o le ultime, le tribune o le curve, e ovviamente senza distinzione di prezzo.
L’unica (piccola) zona con seggiolini in pelle è la minuscola tribuna d’onore. Il luogo in cui Hitler e tutto il Partito nazista presenziava ai grandi eventi sportivi, come le Olimpiadi. Ovviamente è la zona dello stadio in cui è posizionata l’area hospitality con un bancone con spillatrice enorme nel mezzo. Per tutti gli altri settori bisogna “accontentarsi” di un ristorante e dei bari al piano superiore.
Nel tunnel che porta agli spogliatoi c’è una parete con diverse teche. All’interno sono custodite coppie di maglie, precisamente una coppia per ogni finale di DFB-Pokal, la Coppa di Germania (perché la finale della competizione si gioca sempre qui dal 1985).
L’effetto è quello di un viaggio nel tempo, fino a quando la Bundesliga non aveva la legacy odierna, ma anche perché questo vezzo ornamentale offre la possibilità di far tornare alla memoria squadre diventate hipster anche grazie a delle maglie iconiche: è il caso del Werder Brema nel 2009 o del Duisburg nel 2011.
Ma alcune coppie raccontano anche un pezzo di storia sbiadita, come quando nel 2001 l’Union Berlin in quel momento in 3. Liga sfidò lo Schalke 04.
Una storia rimasta memorabile in Germania che quelli dell’Eisern ricordano sempre volentieri. È proprio l’Union la prossima tappa del viaggio, ma c’è ancora qualche minuto per chiudere il tour, negli spogliatoi precisamente, l’unico posto rimasto ancora inviolato nel mondo del calcio.
È qui che vengo a conoscenza di altri due dettagli che mi strappano un sorriso.
Lo spogliatoio predisposto per l’Hertha Berlino, club che gioca tutte le partite casalinghe all’Olympiastadion, è ovviamente quello più grande e figo. È proprio quello che venne assegnato all’Italia per la finale del 2006, la guida ci scherza pure su questa cosa, ammiccando e lanciando una frecciatina ai francesi, con quello stile campanilistico che tanto piace a noi italiani. Lo spogliatoio dell’Hertha poi, si distingue, anzi non lo fa affatto, perché non raffigura nessun elemento di brandizzazione o caratterizzazione del club di casa, nemmeno per le postazioni dei calciatori bianco blu.
Il motivo è in parte lo stile austero voluto dall’Hertha, e in parte il fatto che si tratti pur sempre di uno stadio destinato alle competizioni della nazionale tedesca. Non è un fattore scontato, l’Olimpico di Roma ad esempio ha un terzo spogliatoio extra dedicato alle nazionali, senza rinunciare alla personalizzazione per l’AS Roma e la Lazio.
L’Hertha si limita ad una fascia adesiva con la scritta in doppia lingua “Berlin: creativity, confidence, desire to win” praticamente fissata sul soffitto, ma facilmente rimuovibile ad ogni occasione.
Il mio tour finisce dal lato opposto da cui ero entrato. Prima di riprendere il treno, questa volta nella direzione opposto, mi incanto qualche minuto ad osservare il terreno di gioco, e con l’aiuto della fantasia provo a collocare la porzione di campo in cui si sono consumate le scene più celebri della vittoria contro la Francia nel 2006.
In realtà, l’ultima vera tappa è lo store dello stadio (che si differenzia dai due dell’Herhta presenti). Tra i gadget e l’abbigliamento c’è una collezione realizzata da Copa 90. Ci sono cappellini e calzini che raffigurano la testata di Zidane a Materazzi.
È come se il tempo non si fosse mai fermato, ma mi rendo anche conto di quanto quell’evento e quella partita hanno definito un pezzo di storia calcistica che non è solo italiana, ma sarà conservata probabilmente per sempre.
Un pezzo di storia che, come un vino francese, troverà col tempo sempre più spazio di rappresentazione, e un buon narratore disposto a raccontarla.
“Un club unico nel suo genere. Un club che senza i suoi tifosi non sarebbe nulla”.
Sono le parole di Jacob Sweetman, esperto di storia berlinese e da un anno addetto alla comunicazione sui canali inglesi dell’Union Berlin.
Jacob arricchisce di parecchio il mio viaggio, oltre ad averlo reso in un certo senso possibile. Queste parole le pronuncia subito dopo avergli chiesto un parere su una notizia recente, il raggiungimento da parte dell’Union di quota 50.000 soci. Traguardo che rende il club l’ottava squadra del calcio tedesco con più soci (mentre chiudo il reportage ad inizio aprile 2023 l’Union è già a quota 53K).
Ma prima dell’incontro con Jacob devo prendere una metro, un tram e farmi un pezzo a piedi nel bosco di Köpenick.
Sì, perché l’An der Alten Försterei è proprio nel bel mezzo di un bosco, e non è situato proprio nei pressi del centro di Berlino. Siamo nella parte est della città.
Arrivo molto presto, alle 10:45, quasi 5 ore prima della partita. So di avere tra le mani un’occasione rara e un po’ per ansia, un po’ perché devo registrare speech e filmati di copertura per la clip, non voglio perdermi nessun momento, tanto meno arrivare col fiatone.
Mi chiedo come faccia ad esserci uno stadio nei paraggi, ma dopo meno di 10 minuti di alberi spogli per via del periodo dell’anno, intravedo i colori rosso e bianco. La prima cosa che mi trovo davanti al piccolo piazzale adiacente allo stadio è un paio di furgoncini della birra e lo store ufficiale del club, strategicamente posizionato poco prima dell’ingresso in curva, e nel quale il giorno del matchday è permesso entrare solo se si possiede un biglietto della partita o un accredito.
A quell’ora lo store è chiuso e c’è davvero pochissima gente nei paraggi; quindi, ne approfitto per circumnavigare lo stadio e studiarmi tutta la zona che costeggia l’Alten Försterei.
La facciata della tribuna centrale ha un non so che di stadio inglese, un accostamento che probabilmente faccio per via dei mattoncini marroni che ricoprono il prospetto dell’impianto.
Ogni volta che sono a vedere una partita di calcio all’estero mi piace soffermarmi su alcune abitudini del tifoso.
Noto quante ore prima del fischio di inizio gli spazi fuori e dentro allo stadio cominciano a riempirsi. Annoto mentalmente se i fan indossano merchandise della loro squadra e se sì quale. Questa cosa mi dà l’illusione di poter capire qualcosa in più di loro, della squadra. Mi aiuta a capire meglio come vivono il calcio i tifosi in quel paese.
In Bundesliga e in particolar modo nella casa dell’Union Berlin mi aspettavo un’onda di pubblico già parecchio prima dell’inizio della sfida contro l’Eintracht, partita tra l’latro di una certa rilevanza in classifica.
Un po’ deluso continuo la perlustrazione attorno all’Alten Försterei, una struttura da 22.000 posti che in un futuro breve sarà ampliata a più di 30K unità. È dopo qualche minuto e una serie di prove degli speech utili per la realizzazione del video reportage, in un parchetto affianco allo stadio che mi rendo conto che l’affluenza di tifosi a quell’ora c’è, ma è spartita in diversi punti di interesse limitrofi, uno di questi è una birreria ad un chilometro dalla tribuna centrale.
Nei paraggi dello stadio sono l’unico che non indossa i colori dell’Union, e anziché avere in mano una birra ho un telefono sorretto da un gimbal.
Sono così fuori contesto che i tifosi non si attardano a farmelo notare con degli sguardi di gruppo a metà tra l’incuriosito e il sospettoso. Più forse il secondo.
Mi accorgo anche che sarei passato molto meno osservato se avessi avuto addosso il bianco-nero dei colori dell’Eintracht Francoforte, dato che piccoli gruppi di sostenitori della squadra ospite passeggiano nei paraggi tra l’indifferenza dei tifosi dell’Union.
Per distinguermi o dare un segnale di neutralità non posso nemmeno indossare il badge media. Quello mi sarà dato solo dalle 13:30 in poi, orario di apertura dell’ufficio predisposto per le attività di accredito. Sfrutto allora questo arco di tempo per telefonare Jacob Sweetman, il mio uomo nell’Union con cui ho concordato un’intervista.
Con una serenità difficile da codificare per noi italiani prima di una partita importante, Jacob mi raggiunge e mi dice che abbiamo diverso tempo a disposizione per fare due chiacchiere. Con le mani in tasca e un andamento lento, tipico di chi si sta godendo l’atmosfera più che il travagliato prepartita di un match di campionato, Jacob mi accompagna in quella che potrebbe essere la location ideale per l’intervista, perché nel suo ufficio “c’è troppa gente e rumore in quel momento”: eccoci allora proprio davanti la casa del vecchio guardaboschi, disposta praticamente da una vita difronte la tribuna centrale.
Dopo il classico scambio di convenevoli e una mia battuta sul suo splendido cognome, parte l’intervista.
«Io sono qui da un anno per gestire i canali in inglese e l’account Twitter del club da quando l’Union ha cominciato a giocare in Europa e necessitava di un tono internazionale.
Quello che penso che dobbiamo fare noi che lavoriamo all’Union è veicolare il valore unico di questo club e farlo comprendere e percepire ai nostri tifosi»
Per l’Union Berlin gli ultimi 4 anni sono stati semplicemente imprevedibili.
Una squadra che prima del 2019 non era mai stata in Bundesliga, e ora si trovava ad affrontare i primi derby cittadini con l’Hertha Berlino in prima divisone, e addirittura le prime esperienze in campo internazionale. L’Union ora può anche vantare più di 50 mila soci sparsi nel mondo, assurdo se si pensa che il numero nel 2010 era di 6.500.
«Questo club senza i membri tesserati non sarebbe nulla.
Quest’anno abbiamo toccato quota 50.000 membri per la prima volta nella storia. Questo vuol dire diverse cose, ad esempio da noi è complicato trovare i biglietti per la partita, ma questa non è la cosa più importante per i nostri tifosi.
Per loro la cosa più importante è essere ascoltati e integrati nei processi decisionali e partecipare a tutto ciò che succede attorno al club. Proprio prima di Natale si è tenuta l’assemblea con i soci, il momento in cui i tifosi hanno una voce e parlano letteralmente con il presidente del futuro.
In questo club il coinvolgimento dei tifosi è davvero diverso».
Tra il progetto del nuovo stadio, la partnership con adidas rinnovata da poche settimane fino al 2030 e il numero dei soci in continua crescita, saluto Jacob chiedendo dei prossimi “goals” della squadra.
«La cosa più importante che potrebbe succedere e dobbiamo raggiungere è la qualificazione per il terzo anno consecutivo alle competizioni europee, così da aumentare il nostro riconoscimento internazionale e le nostre finanze che potrebbero raggiungere cifre mai toccate.
Inoltre, stiamo lavorando per aumentare la capienza dello stadio, dovremmo poter allargarla a 7.000 persone in più rispetto ad ora, oltre a voler aumentare sempre di più l’influenza che hanno i nostri soci tesserati».
Prima di lasciarci Jacob ci tiene anche a rimarcare quanto sia stato bello giocare per la prima volta in Europa al “Försterei” solo quest’anno per l’Europa League, sì perché nella prima stagione europea di Conference League i tedeschi sono stati costretti incredibilmente a giocare all’Olympiastadion, l’impianto dell’Hertha. Così come è stato incredibile vedere l’Union contro l’Ajax in uno stadio iconico come l’Amsterdam Arena.
Finita l’intervista, è quasi il momento di entrare nello stadio, non prima di ritirare il pass.
Il fatto che io sia un estraneo con connotati mai visti da queste parti, nella casa di una famiglia in cui tutti conoscono tutti, è una sensazione che mi viene confermata al momento del ritiro dell’accredito. Nell’ufficio non mi chiedono né documento e nemmeno il nome, ma mi porgono subito il mio badge personale.
Sul volto dell’impiegato dell’Union si stampa un sorriso che mi fa sentire per diversi minuti un privilegiato.
Provo ad immedesimarmi nella sua testa, magari pensa: “L’italiano giornalista è venuto a farci visita”. O più probabilmente non ha pensato nulla di tutto ciò, ma mi ha visto qualche metro più in là conversare con Jacob.
Non mi perdonerei mai l’idea di tornare in Italia senza un pezzo di merch dell’Eisern Union, per questo decido di fare un salto al volo nello store, dove mi viene vietato tassativamente di realizzare clip o foto. Mi accontento di un pantaloncino e una copia del match program, per poi scoprire che il giorno della partita tutti gli articoli sono scontati.
L’idea di indossare il pantaloncino dell’Union questa estate mi fa uscire dallo store col sorriso sulle labbra.
Lo store è poco prima dell’ingresso in curva, come detto. Quella parte di stadio, la più calda, è il luogo ideale per concedermi finalmente una pinta e un panino rigorosamente con salsiccia tedesca. Con il chiasso e i primi cori di sottofondo dei tifosi, vivo quei 10 minuti in cui ti rendi conto che fai uno dei mestieri più speciali al mondo.
Lo stadio è aperto, tagliato agli angoli, questo permette dalla posizione in cui mi trovo di godermi al meglio la curva dell’Union che poco alla volta si riempie, e sbirciare gli altri settori dell’impianto, tutti a pochi metri dal campo di gioco.
Il manto erboso manco a dirlo è perfetto. Ma è solo quando salgo su in tribuna che riesco a notare una delle particolarità che rende unico l’An der Alten Försterei. Tre quarti dello stadio sono senza seggiolini, qui la partita si vede sempre in piedi, cantando nel vero senso della parola per 90 minuti e oltre. Questo dettaglio in realtà è stato voluto proprio dai tifosi, gli stessi che tra il 2007 e il 2009 hanno offerto al club 140.000 ore di lavoro gratuito per i lavori di ristrutturazione dello stadio, dato che il club avrebbe avuto non pochi problemi economici ad affrontare questo upgrade richiesto dalle federazione tedesca spinta dai Mondiali organizzati pochi mesi prima.
L’Unica parte di stadio con i seggiolini è proprio la tribuna centrale, quella dove mi è stato assegnato il posto, nella zona media che a differenza di molti stadi nel mondo non è in posizione centrale ma leggermente defilata rispetto al calcio di inizio.
E per quanto metà stadio abbia una birra in mano durante la partita, è vietato portarne una nelle file destinate ai giornalisti, in caso contrario uno steward non mancherà di farvelo notare.
Anche le tribuna centrale è però la dimostrazione del legame viscerale tra l’Union e i suoi tifosi.
Per finanziare i lavori di ristrutturazione di questa parte di impianto, l’Union ha messo in vendita ai tifosi e ad alcuni sponsor 4.141 azioni dell’azienda che detiene lo stadio (la Union Stadionbetriebs AG), ricavando 2.7 milioni di euro.
È grazie a questa idea che l’Union è diventata la prima squadra in Germania con lo stadio parzialmente di proprietà dei tifosi.
Nonostante la tribuna centrale sia l’unica con i posti a sedere, l’atmosfera è abbastanza calda anche qui. In curva si canta già da più di 20 minuti prima del fischio di inizio, e l’effetto cromatico è qualcosa di unico: una marea di bianco-rosso. Tutti indossano la maglia, la sciarpa o la giacca del club che ne giova sia in cassa che di atmosfera.
Anche i tifosi in tribuna si alzano in piedi ad un certo punto, partecipano con grande vigoria ai cori ai quali fanno eco davvero tutti i 20.000 tifosi di casa, non lasciando che il tifo diventi sordo o ovattato in altre parti dello stadio come spesso succede in altri stadi d’Europa.
A proposito di Europa, quando la partita comincia, rifletto sul fatto che le due squadre sono reduci da due trasferte internazionali andate malissimo: l’Eintracht ha preso 3 schiaffi dal Napoli, l’Union ha dovuto dire addio al sogno Europa League dopo la sconfitta con i quasi omonimi dell’Union Saint-Gilloise, dopo aver raccolto la palla in rete per 3 volte proprio come i rivali odierni.
Lo stadio ora è totalmente colorato, anche lo spicchio dei tifosi dell’Eintracht diventa molto caratteristico e chiassoso. I tifosi della curva dell’Union sono protetti da eventuali pallonate da una rete calata dall’alto che con un gioco di intreccio di fili ricrea la scritta “UND NIEMALSVERGESSE”.
Attorno al terreno di gioco gli spazi sono quasi immacolati dagli sponsor. Le gestione è molto oculata, l’Union non apre le porte delle sponsorship a tutti e non vuole di certo un’invasione di brand e loghi. Le scritte ai lati del campo sono per lo più dedicate a scritte che rimarcano un certo tipo di identità, solo raramente al main sponsor We Fox.
Non è un caso se di recente i soci proprietari dello stadio abbiano scelto di rinunciare ad una proposta arrivata per l’acquisto dei naming rights dello stadio, accordo che avrebbe cancellato il nome tradizionale dello stadio da ogni riferimento futuro.
Il primo tempo termina sullo 0-0.
Nel secondo l’Union la sblocca monetizzando la presenza nella trequarti avversaria sempre più costante. Dagli sviluppi di un calcio d’angolo Rani Khedira, il fratello del più noto Sami, risolve una di quelle mischie confusionarie sbucando proprio come abbiamo visto fare spesso all’altro membro della sua famiglia, quando siamo al 53’ e mi fa pensare che alcune “letture” facciano parte del DNA.
Più tardi, al 75’ Kevin Behrens, uno che l’Union ha pescato dalle serie minori e che si è affacciato al grande calcio solo a 30 anni, fa tutto quello che deve fare un attaccante navigato. Vince uno strano rimpallo aereo contro Tuta, anticipa con la punta del piede il giovane difensore croato Smolčić che sembra più preoccupato di non fare fallo che a fermare l’avversario, e infine si guadagna lo spazio per calciare in porta e farla passare sotto le gambe del portiere.
Per la seconda e ultima volta in partita i tifosi dell’Union si lasciano andare ad un boato collettivo. In campo vola qualche litro di birra dalla gioia e l’addetto al risultato presente nella cabina di fianco alla curva cambia manualmente il risultato sul tabellone, sì perché all’An der Alten Försterei non ci sono i led digitale del risultato, ovviamente per scelta.
Una tradizione che insieme ai mattoncini marroni parecchio presenti nello stadio, rende l’atmosfera molto britannica.
Dopo il triplice fischio i cori si fanno ancora più consistenti. È tutto lo stadio a cantare in coro, fino a quando i calciatori dell’Eisern non si raggruppano davanti la curva per saltare, ballare e cantare insieme ai loro sostenitori, raffigurando quella che vista da fuori sembra letteralmente un’unione di ferro.
In questi secondi riesco a percepire perché migliaia di tifosi per salvare l’Union dalla bancarotta, nel 2004 hanno donato il sangue in massa per girare al club il rimborso di 10€ che in Germania viene offerto a quelli che da noi sono i rispettivi donatori Avis.
La vittoria invece, proietta l’Union sempre più tra i primi posti della Bundesliga.
Buona parte dei tifosi preferisce rimanere all’interno dello stadio per le ultime birrette o per qualche foto insieme a Ritter Keule, la mascotte del club che impersonificata da un guerriero medievale.
Mi dirigo verso la fermata della metro Berlin Zoological Garden, dove ho un appuntamento, questa volta non di lavoro, con Adriano. È proprio la zona protagonista del film “I ragazzi dello Zoo di Berlino” dove c’è la famosa Gedächtniskirche, la Chiesa commemorativa dell'Imperatore Guglielmo conosciuta perché riporta ancora adesso i danni sul tetto dovuti ad un bombardamento nella Seconda Guerra Mondiale.
Il weekend lungo a Berlino si chiude con l’accoppiata derby di Roma e derby d’Italia, rigorosamente in un locale a metà tra il ristorante italiano e il pub, con tanto di locandina de “La Vita è bella” appesa al muro, affiancata inspiegabilmente da una maglia del Sassuolo di Lino Marzorati.
La mattina dopo ho il volo per il ritorno in Italia.