Perché i tifosi odiano il rebranding?
A ridosso del primo Derby d’Italia della stagione 2020 – 2021 di Serie A, gran parte dei media italiani specializzati in notizie sportive hanno lanciato e ripreso la notizia di un rebranding totale da parte dell’Inter.
Salvo poi, dopo aver scatenato il panico anche all’estero, retrocedere all’ipotesi di cambio logo, diventata dopo la smentita di Alessandro Antonello, Delegato Corporate e Vice Presidente Inter Futura, all’ANSA, un lancio di un nuovo progetto di marketing per “coinvolgere i suoi milioni di tifosi e rafforzare ulteriormente il legame con la città di Milano”.
In sintesi, l’Inter lancerà un nuovo progetto coerente a ciò che da anni, e in particolare dall’arrivo di Steven Zhang, il club stava già facendo per mirare ad un’appetibilità sempre più globale, come lo stesso nome della squadra tra l’latro richiama.
Più che rebranding si dovrebbe parlare di restyling e di lancio di iniziative volte a fortificare l’internazionalizzazione del brand. Altro errore di queste ore infatti, l’associazione con la Juventus che ha svolto un’attività di rebranding appunto, diametralmente opposta a quella che dovrebbe fare l’Inter. In quel caso l’obiettivo era un “piano volto a concretizzare la filosofia di Juventus – la ricerca dell’eccellenza senza compromessi – in iniziative, progetti ed esperienze radicalmente innovative, di cui il calcio sarà sempre l’origine, ma mai il confine. Questo permetterà al Club di sostenere la propria crescita sportiva ed economica, ed estendere la propria influenza sui mercati internazionali”, come spiegato da Manfredi Ricca, Chief Strategy Officer di Interbrand, l’agenzia che ha curato il processo.
Nel marasma cieco della ricerca di dettagli utili (seppur inconsistenti) al rafforzamento dell’ipotesi rebranding, praticamente nessun media ha ricordato che l’operazione di rebranding totale l’Inter l’aveva già fatta e nemmeno troppo tempo fa.
Più precisamente 5 anni fa Francesco Cavalli ha raccontato su Marte il perché e il come di questa operazione. Cavalli è l’art director di Leftloft, lo studio che ha rinnovato l’immagine dell’Inter in maniera spot dal 2011 e con continuità e totale partecipazione dal 2014.
I club, come le persone, cambiano e ad un certo punto hanno bisogno di un vestito nuovo. Suona particolarmente strana quindi l’ipotesi di un rebranding totale a distanza di tempi così ravvicinato.
Cavalli ha anche raccontato un aneddoto riferito proprio al nome che da solo avrebbe portato sulla strada giusta per evitare il fraintendimento dell’ipotesi di cambio in Inter Milano: “Un’altra cosa che abbiamo standardizzato è legata al nome: da ora in poi i media (più di 6 anni fa, ndr), compresi quelli stranieri, dovranno scrivere Inter Milano e non Inter Milan. Sono piccole cose, ma per un tifoso sono importanti”.
Dall’intervista emergono anche altri particolari che valgono la pena di essere ripresentati.
Oltre alla riconversione del carattere del club e dell’Inter da “pazza” a “sorprendente” (l’intonazione folle da DNA è stata scansata anche da Conte nel video di presentazione con Alessandro Cattelan e Steven Zhang), è molto singolare l’episodio della maglia proposta da Nike: “Nike, lo sponsor tecnico dell’Inter, aveva proposto una maglia con un teschio, basandosi sull’immaginario combattivo della Curva Nord. Noi, in accordo con l’allora presidente Moratti, l’abbiamo bocciata, perché – per quanto sicuramente in linea con l’estetica di una parte rilevante del club (la curva) – era in contrasto con l’identità più ampia dell’Inter come squadra internazionale promotrice dei valori di fratellanza e integrazione. Anche le squadre di calcio hanno una personalità”.
Ad un certo punto della vicenda, i dettagli apparsi su molti media sono stati ripresi praticamente dai flame creati dagli utenti su Twitter.
Una volta riportate sui media più seguiti a livello nazionale le indiscrezioni nate su Twitter, il giochino si era completato: si è così amplificata la portata della discussione e del chiacchiericcio, moltiplicando notevolmente il numero di persone che ne hanno (ri)cominciato a parlare sui social (i grandi media nazionali, come la televisione, hanno ancora il potere di legittimare alcune ipotesi, oltre che fungere da megafono).
È da questo contorto processo di comunicazione che sono nati “i tifosi imbestialiti contro il rebranding dell’Inter”.
Il commento del Creative Designer (del brand Erreà) su Twitter
Perché i tifosi hanno paura del rebranding del proprio club?
Nata quindi la grande “polemica social”, che abbiamo riportato qui, viene da risolvere un’antinomia: perché i tifosi odiano il rebranding?
Il rebranding, che è un’attività utile a intercettare nuove generazioni e target più giovani, si presta a diventare poco digeribile proprio ai target di età maggiore che spesso hanno maturato una minore elasticità al cambiamento, ma soprattutto in quel logo, marchio o valore che sta cambiando hanno identificato e racchiuso i propri ricordi e momenti felici.
Il motivo per cui i tifosi più datati hanno paura del rebranding è lo stesso per cui la nostalgia è una leva di marketing emozionale quasi sempre di sicura riuscita. Questo spiega anche perché collezionismo e memorabilia siano categorie molto presenti nella vita quotidiana.
La paura dei tifosi che hanno associato “al vecchio logo” e alla vecchia immagine ricordi vincenti, è insita e collegata all’incapacità oggettiva di prevedere il futuro e quindi i risultati del club con la sua nuova immagine.
Un cambiamento rischioso, realizzato per giunta in nome di nuovi tifosi che, secondo l’opinione generale degli affezionati, non conoscerebbe i vecchi valori del club che quindi rischiano di andare persi nel tempo. Ma i professionisti in materia sanno bene che al cuore di un’attività di rebranding sono proprio i valori, la tradizione e la storia del club gli elementi da cui partire e che devono restare il cuore pulsante dell’identità.
Passaggio che sottolinea l’importanza dei professionisti in un cammino di questa portata come lo è appunto il rebranding totale.
Nel periodo storico in cui domina la disintermediazione dovuta a piattaforme come i social media o meglio ancora, le piattaforme di fan engagement come Socios.com, in cui i fan può generare un impatto sulle scelte del club, ci sono alcune aree d’azione come il marketing in cui l’opinione dei tifosi non deve sfiorare le scelte societarie.
Un’opinione troppo spesso viziata da risultati ed emozioni del momento che non preclude una visione del futuro.
Tra i tanti club che si aggiungono alla cerchia del cambio logo storico negli ultimi anni, anche il Manchester City che nel 2015 rifece il restyling offrendo di pagare i costi di rimozione a chi aveva tatuato il vecchio logo. Un cambio che anche all’epoca fece infuriare i tifosi, ma che oggi è altamente metabolizzato dai Citizen, oltre a rappresentare in maniera armonica il club inglese nel mondo. E no, il Manchester City non ha visto declassare i propri risultati dopo il restyling, e allora serve coraggio anche da parte dei tifosi.
Quindi, innovare sì, ma dimenticare mai.