La gestione delle parte commerciale di un calciatore: intervista a Carlo Diana
Hai lavorato per 7 anni nell’area sales e marketing della Juventus tra fine anni ’90 e inizio 2000. Come sono cambiate queste aree dei club rispetto al passato? Quindi quali sono stati i cambiamenti più rilevanti in queste aree del club praticamente stravolte negli ultimi anni.
"Hai citato una Juventus che anche oggi sarebbe attualissima da questo punto di vista, nel senso che era talmente avanti allora che anche oggi sarebbe molto attuale se non per l’avvento dei nuovi media che ha sconvolto il modo di comunicare.
Questo è il grande upload che il club ha fatto egregiamente, però quanto fatto quegli anni dal punto di vista innovativo oggi lo fanno praticamente tutti. Considera anche che noi eravamo frenati perché non avevamo uno stadio di proprietà che voleva fortemente l’amministratore delegato di allora, cosa che ti permette di dialogare con i tifosi in maniera diversa e migliore grazie ai servizi aggiuntivi che puoi offrire.
Quegli anni per fare il record di abbonati (al Delle Alpi, ndr) abbiamo dovuto fare una campagna conveniente dal punto di vista del pricing, oggi invece puoi alzare il prezzo e fare tranquillamente il tutto esaurito anche perché è diminuita la capienza, ad un livello ideale per una città come Torino.
Noi lavorammo molto sul BtoB, realizzando dei posti e delle aree esclusivamente per le aziende offrendo il massimo servizio possibile".
Qual è nello specifico una di quelle iniziative che a rivederla oggi si intuisce che fosse davvero un passo nel futuro, o che comunque sarebbe davvero attuale anche ora?
"Ti dico questa che poi nel tempo hanno recepito tutti gli altri club.
In quegli anni le squadre affidavano la pubblicità a bordocampo alle concessionarie di pubblicità, anche il Milan nonostante fosse quella più all’avanguardia. Così praticamente offrivi solo una brand partnership a bordocampo totalmente controllata da altri.
Cosa facemmo allora. Innanzitutto, decidemmo di rendere interna la gestione delle pubblicità".
Quindi diventava la Juventus che gestiva tutto l’onere e l’onore del lavoro con gli sponsor?
"Sì, e per fare ciò dovevi munirti di un’area marketing grande per numero e qualità professionali. Io arrivai proprio in quel momento.
Successivamente creammo un disaffollamento. C’erano un centinaio di marchi negli stadi, ma noi, prendendo spunto dalla strategia della UEFA Champions League, che penso sia ancora applicata ora, decidemmo di avere pochi ma buoni brand. Il nostro bordocampo veniva così offerto agli sponsor tradizionali che erano 8, e altri 8 che potevano diventare partner commerciali.
La presenza a bordo campo, che prima era la principale porta d’ingresso, divenne per noi la condizione necessaria ma non sufficiente per entrare a far parte del nostro club. Quindi offrimmo un piano di marketing a 360° che includeva la brand sponsorship con un’esposizione migliorata, banalmente vedi la visibilità nella postazione del quarto uomo, e poi offrivamo un programma di pubbliche relazioni che prevedeva convention, biglietti e un palco, ma anche opportunità pubblicitarie come i concorsi con i tifosi e opportunità commerciali con loro.
Una cosa che oggi sembra normalissima ma all’epoca no, era avere solo prodotti del brand partner al bar e al ristorante dello stadio.
Tutto ciò ci permise di fare una politica di premium price. Considera che noi vendevamo lo spazio di sponsor istituzionale a 800.000 € quando una prima fila a bordocampo prima la vendevi a 50.000 €.
All’inizio tutto ciò fu recepito con scettiscismo dal mercato, tant’è che chiudemmo il primo anno con 2 sponsor. L’anno dopo invece facemmo sold out.
Oggi fanno più o meno tutti così.
Meno sponsor, più fatturato e rapporto più stretto con gli sponsor.
Pensa che fummo talmente pignoli da commissionare una ricerca di mercato a fine stagione per capire tra i tifosi quali fossero quelli che avevano più memoria dei brand agli sponsor: i tifosi della Juventus risultarono primi".
A proposito di calciatori invece, com’è cambiata la gestione commerciale dei calciatori? Forse negli anni ’90 nemmeno si parlava di gestione commerciale.
"Qui specialmente è davvero cambiato tutto. Anche in questo caso devo dire che la Juventus fu pioniera cambiando il paradigma: il club decise di prendere in proprio la gestione dei diritti di immagine dei calciatori con un’area dedicata.
Applicammo la strategia di cui ti ho parlato prima anche per gli sponsor che si avvicinavano ai calciatori. Questo permise alla Juventus che all’epoca era la squadra che pagava gli ingaggi dei giocatori al di sotto della media dei grandi club, di dare un premium price anche al contratto dei giocatori comprando i diritti di immagine e recuperando se non in gran parte la spesa maggiorata con la commercializzazione dell’immagine del calciatore.
Con Reset quindi fummo i primi a gestire il lato commerciale di un calciatore come gestivamo la parte sportiva, anche se devo dire che in America o altri Paesi era già così, o in alcuni casi addirittura la parte commerciale era più curata di quella sportiva".
Ecco, volevo arrivare proprio qui, in quei Paesi dove l’incidenza dei diritti di immagine nel contratto e nei guadagni di un calciatore e maggiore che da noi. In Inghilterra, ad esempio, la parte commerciale in proporzione incide più che della parte sportiva. Si stima un 30% di media in più.
"Quel 30% di guadagni determinati dalla possibilità di gestire la propria immagine è la norma anche nei club e nelle leghe inglesi di rango minore.
Tralasciando invece i top player per cui i guadagni derivanti dall’attività commerciale superano addirittura quelli della parte sportiva, nella Nazionale italiana ad esempio, escluso Chiellini, la media di guadagno è intorno al 10% e questa percentuale è data praticamente tutta dallo sponsor tecnico che praticamente ormai hanno tutti i calciatori.
Per migliorare questa situazione, senza nulla togliere ai procuratori, direi che andrebbero ampliate sotto altri aspetti il tipo di figure che si occupano di un calciatore.
Devo dire però che in Italia la colpa è anche delle aziende che non sono al passo coi tempi come nei paesi anglosassoni, in quanto agenzie come la Reset che aiuta le aziende ad investire nello sport, in America sono la normalità, come è normale che le aziende chiamino quando hanno bisogno. Queste ultime si affidano ancora ad agenzie e centri media che non sono specializzate o che investono il budget nei mezzi tradizionali".
Quando vi capita di avere un ruolo nella gestione commerciale o nell’intermediazione di una trattativa di un calciatore estero all’estero, o di un calciatore straniero da trasferire in Italia, quali sono le grandi differenze?
"Si percepisce subito la differenza. Il calciatore straniero lo trovi giù più predisposto e sensibile a queste cose.
Non gli devi spiegare nulla. Quando spieghiamo i nostri servizi ad un giocatore giovane in Italia gliela poniamo come un plus nel suo ecosistema. Quando invece parliamo con giocatori che hanno militato in Bundesliga o Premier non gliene devi nemmeno parlare, la ritengono una cosa normale che fa parte del rapporto tra manager e calciatore.
Tutto ciò è partito dall’America dove se ci pensi negli sporti individualistici come il tennis, il ruolo del manager è 90% gestione commerciale e 10% gestione sportiva. Una volta organizzati i viaggi e l’iscrizione ai tornei, il manager si deve occupare solo della parte commerciale, quindi lì sono tutti predisposti, in Italia invece bisognerà aspettare ancora a lungo".
In Italia vige la figura del procuratore per quanto riguarda gli aspetti contrattuali di un giocatore e poi tutto si ferma lì. Tu Carlo con Reset Group, insieme al tuo socio Davide Lippi, avete compreso l’importanza di allargare lo sguarda alla parte di brandi e comunicazione di un atleta.
Quando c’è stato il momento dell’illuminazione che vi ha spinto a intraprendere questa direzione?
"Ci sono stati due momenti, uno più facile e uno più difficile.
Quello facile è stato quando Lippi ha vinto il Mondiale. Lui scrisse con il sociologo Francesco Alberoni un libro intervista sulla gestione della leadership in un gruppo.
Da quel momento tutte le aziende ci chiamarono per parlare di questo. Fu normale, insomma, c’era un allenatore che aveva scritto un libro sulla leadership e che aveva appena compiuto un miracolo sportivo.
L’altro momento fu quando Chiellini aderì alla Reset come primo calciatore. Lui mi manifestò proprio l’intenzione di voler fare qualche pubblicità nel periodo in cui i calciatori iniziavano a far parlare di sé nelle riviste di gossip che si focalizzavano sui loro scandali fuori dal campo e Chiellini rappresentava l’antitesi di quello stereotipo.
Non era nemmeno attaccante e nemmeno il campione di oggi. Quindi, c’erano questi ostacoli nella commercializzazione. Però cosa fa un buon manager in questi casi? Deve capire bene che prodotto ha, e non lo fai a sensazione ma con ricerche di mercato. Cosa però che non era all’ordine del giorno all’epoca per un calciatore.
Provai a contattare Nielsen e gli incaricai questa ricerca che mi servii molto perché scoprii che Chiellini aveva ottima notorietà sul target affine al mondo tecnologico, addirittura con un tasso maggiore rispetto al tasso di notorietà generale.
Forse perché Chiellini giocava molto a Fifa e ai videogame. In quel momento decisi di contattare direttamente EA. Da lì si aprii il mondo con Giorgio unico calciatore italiano per due anni di fila sulla copertina ufficiale di Fifa versione italiana.
Tempo dopo Puma scelse lui per rilanciare il brand in Italia.
Tutto è stato possibile grazie all’evoluzione del ruolo di manager che abbiamo apportato in Italia, al lavoro costante e al socio Davide Lippi che ha subito creduto in questa cosa".
Mi incuriosiva capire una cosa. Quando viene da voi un calciatore, o comunque decidete di avviare un rapporto commerciale, quali sono gli altri passi oltre l’analisi di mercato?
"Sicuramente renderlo più noto, e in questo caso i social ci aiutano molto perché oltre ad aumentare il suo tasso di notorietà, ci aiutano a muoverci e capire il suo pubblico.
Se in Italia vengono considerati solo i calciatori che arrivano in Nazionale, in Inghilterra anche grazie ai social le aziende sanno che ogni calciatore, anche quelli di terza divisione, hanno un proprio target e interessi".
La strategia social viene prima dell’approccio con i brand?
"Sì, questa è la grande differenza rispetto a prima perché prima ci diamo un periodo di attività di comunicazione sui social in cui rendiamo noto il calciatore con una strategia coerente ai suoi valori e carattere.
Per un certo periodo siamo focalizzati solo sulla comunicazione e sull’attività social".
E i calciatori percepiscono l’importanza della dimensione social?
"Diciamo che noi cerchiamo di prendere calciatori affini ai valori della nostra azienda.
Con i più restii dedichiamo tempo a farglielo capire anche perché l’immagine ti permette di fare una carriera migliore.
I top club, come il Manchester United o Bayern Monaco, oggi vedono anche questo aspetto. A parità di condizioni i club sceglieranno calciatori con un'immagine fuori dal campo gestita in modo professionale".
Carlo grazie, è stata una bella lezione di marketing, A proposito di formazione, mi racconti per chiudere qual è stato il tuo percorso e se hai iniziative future da segnalarmi?
"Il mio percorso è sicuramente quello dell’appassionato di calcio. All’Università La Sapienza di Roma che è sempre stata un’università all’avanguardia, conobbi un professore di marketing molto avanti rispetto ai tempi.
Siccome la disciplina mi piaceva, mi disse che stava facendo tesi innovative e sperimentali, chiedendomi se volessi fare una tesi sul marketing sportivo. Ovviamente accettai perché così potevo unire le mie due grandi passioni, all’epoca però in Italia non c’era materiale e per due anni in qualche occasione andai in America per recepirlo.
Dopo essermi laureato quella tesi divenne un libro. Investii tutto in questo settore ma in un momento in cui pochissime società sportive avevano un ufficio marketing. Dovevo promuovermi in un’altra maniera e la situazione mi portò in giro a fare convegni, rifiutando i lavori tradizionali per un laureato in Economia. Ricordo infatti che mio padre si interrogava su quanto dovesse ancora sostenere economicamente il mio sogno di lavorare nel marketing.
Un giorno, in un convegno in cui eravamo relatori io e quello che sarebbe poi stato il mio capo nell’ufficio marketing della Juventus, quest’ultimo mi disse che erano alla ricerca di figure e che potevamo organizzare un colloquio. Da lì mi presero subito e cominciai la mia esperienza con la Juventus che mi insegnò molto, quando avevo 29 anni.
Ti segnalo invece che a breve uscirà un libro con Sperling e Kupfer scritto con Davide Lippi su come si è evoluta la figura del procuratore sportivo".